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Dâkinî (Khandroma)Nepal - Bronzo con tracce di doratura e turchesi - Alto cm. 15,5 - X-XI Sec.
L’etimologia del termine sanscrito dâkinî, così come del corrispettivo tibetano “khandro-ma” (mkha’-’gro-ma), indica la facoltà di volare di cui sono dotate figure femminili come questa. Di origine induista, le dâkinî e i dâka, i loro corrispondenti maschili, costituiscono un gruppo di divinità minori appartenenti al retaggio della dea Kâlî, che abitano carnai e cimiteri cibandosi di carne umana putrefatta[1]. Assunte anche in ambito buddhista, queste divinità hanno mantenuto il loro aspetto macabro, rivestendo la funzione di protettrici e diventando le compagne degli Ishtadevatâ, divinità tutelari molto importanti, con i quali sovente sono raffigurate in unione sessuale. In quanto detentrici di saggezza, le dâkinî sono sempre state oggetto di venerazione e con esse sono state identificate più volte, in particolare nella fase tarda del buddhismo indiano, donne in seguito divinizzate, frequentatrici di cimiteri o altri luoghi macabri, nei quali esse vi praticavano forme di yoga tantrico e rituali esoterici allo scopo di superare ogni dualismo e dicotomia tra piacevole e sgradevole, tra spaventoso e rassicurante, tra io e non-io. Alcune di queste dâkinî sono celebri per aver trasmesso i loro insegnamenti a famosi maestri tantrici, quali ad esempio il guru indiano Nâropa (1016-1100), il cui nome è direttamente collegabile a quello di Nâro Dâkinî,[2] una tra le più note dee appartenenti a questa categoria |