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Pârshvanâtha

Gujarât, India - Ottone - Alto cm. 34 - Datato 1475 - XV Sec

Questa pregevole immagine fu realizzata nell’ambito della tradizione filosofico-religiosa jaina, che fa capo al maestro Jina Mahâvîra (540-468 a.C.), contemporaneo del Buddha Shâkyamuni (563-483 a.C. circa). Al pari del buddhismo, il jainismo si presenta durante il VI secolo a.C. come uno dei grandi movimenti di pensiero e di etica diretti contro il brahmanesimo. Il jainismo attribuisce l’annuncio delle proprie dottrine ad una serie di ventitrè profeti chiamati Tîrthamkara (“Colui che favorisce il passaggio all’altra riva”), o Jina (“Vittorioso”), succedutisi nelle ere cosmiche, ma solo due dei quali accertati storicamente: Pârshva o Pârshvanâtha, qui raffigurato insieme ad altri Tîrthamkara, e Vardhamâna Mahâvîra, detto il Jîna.
Pârshva fu il precursore del Jina Mahâvîra, nato probabilmente a Benares, da una nobile famiglia, nel IX secolo a.C. Secondo le sue agiografie, all’età di trent’anni lasciò la famiglia e ogni bene terreno, come avrebbe fatto anche il Mahâvîra, deciso a raggiungere la liberazione dalle rinascite e dalla sofferenza. Dopo che ebbe conseguito l’Illuminazione si raccolsero intorno lui molti seguaci, e vennero fondate numerose comunità costituite da monaci e laici, che nei secoli successivi si legarono a quelle nate in seguito alla predicazione del Mahâvîra, poiché accomunate da affinità dottrinali e di costume. Pârshvanâtha, che ebbe una vita longeva, si spense volontariamente dopo una protratta inanizione. Una delle tradizioni jaina tramanda che le generazioni dei seguaci di Pârshvanâtha, con il passare del tempo, avrebbero alterato l’interpretazione dell’insegnamento del maestro, rendendo necessaria la venuta del Jina Mahâvîra, che avrebbe aggiunto esplicitamente ai voti fissati dalla regola di Pârshvanâtha anche quello della castità. Le immagini dei maestri jaina sono caratterizzate dalla nudità e da una evidente essenzialità stilistica attraverso la quale gli artisti esprimono uno dei principi fondamentali del pensiero jainista, ossia il dominio totale sul mondo fisico e l’ideale di consapevolezza perfetta. Pârshvanâtha è riconoscibile in particolare attraverso il cappuccio costituito da sette, in alcuni casi cinque, teste di cobra che si espandono al di sopra del suo capo. Questo elemento intende evocare una celebre leggenda secondo la quale Pârshvanâtha, assorto in meditazione, fu improvvisamente colto da una tempesta scatenata da un dio terribile, suo nemico già in esistenze precedenti, per distoglierlo dal suo raccoglimento. In suo soccorso giunsero due Grandi Divinità-Serpente che, unendosi, protessero l’asceta dall’imperversare della tempesta, consentendogli di proseguire indisturbato la sua meditazione, fino al raggiungimento della Realizzazione (1).
In generale, le immagini che raffigurano i Jina presentano una serie di segni distintivi, alcuni dei quali ravvisabili in questa immagine: il trono sorretto da leoni, l’alone, una successione di tre parasoli sopra il capo, cui si aggiungono attendenti con flabello e musici celesti .
L’identificazione di questa immagine con Pârshvanâtha è confermata dall’iscrizione (2) che si trova sul retro dell’immagine e che indica, inoltre, la data e il luogo in cui essa fu consacrata: il lunedì 8 del mese di Mâga dell’anno 1531, corrispondente al lunedì 30 gennaio 1475 della nostra era, nella città di Narasimhapura. Nell’iscrizione viene indicata anche la confraternita di appartenenza della committenza, ossia il Namdîta- ta-gacha. La suddivisione delle comunità jaina in confraternite avvenne intorno alla metà del X secolo d.C., in seno al gruppo degli Svetâmbara (“Vestiti di Bianco”), in seguito ad uno scisma avvenuto fra questi e l’altra grande scuola jaina, quella dei Digambara (“Vestiti di Cielo”) (3). Al Namdîtata-ga- cha apparteneva il poeta Bhattâraka (“Maestro”) Somakîrti che, insieme a un Âcârya Vîrasena, con il quale è menzionato nell’iscrizione, consacrò questa immagine. Discepolo del grande maestro Bhîmasena, Somakîrti fu l’autore di tre testi, due dei quali redatti nel 1474 e 1476, composti nello stile letterario chiamato kâvya, in uso tra i poeti attivi presso le corti indiane, dove fiorì, nella prima metà del VII secolo d.C. Nell’iscrizione compaiono, inoltre, diversi nomi femminili, come accade frequentemente nelle iscrizioni jaina, come mogli di appartenenti alla confraternita.
Immagini in metallo come questa erano particolarmente diffuse nell’India nord-occidentale e venivano realizzate come dono votivo destinato a qualche tempio o santuario, oppure per essere collocate in cappelle familiari.


(1) C. Pieruccini, L’Arte indiana, Corriere della Sera E-ducation.it, Milano 2009, p. 185.

(2) Si ringrazia Alessandro Passi per avere gentilmente tradotto dal sanscrito l’iscrizione.

(3) G. Scalabrino Borsani, La filosofia indiana, Vallardi, Milano 1976, p. 533.

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