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Vajrakîla
Tibet sud-occidentale - Bronzo - Alto cm. 24 - XV Sec.
Vajrakîla rappresenta la manifestazione antropomorfa del picchetto rituale indiano chiamato kîla, che il dio stringe fra le principali delle sue mani. Un antico mito di epoca vedica narra come il demiurgo Indra, prima della nascita del mondo, utilizzò un kîla come arma per uccidere il serpente cosmico primordiale entro le cui spire erano imprigionate le “acque della vita” (1). Il kîla incarna dunque una sorta di paradosso, poiché da un lato è l’arma che infligge la morte ma dall’altro dona la vita. Nello stesso mito Indra si serve ancora una volta del kîla per separare la terra dal cielo, e in relazione a questo episodio tale oggetto iniziò a simboleggiare entrambi: la terra, con la sua parte inferiore, la cui punta ne assicura la stabilità; il cielo con quella superiore, dove dimorano gli dei. Questo mito induista fu assorbito dal buddhismo, nel cui ambito il kîla diventò molto importante, soprattutto nei contesti tantrici che prevedono il culto della divinità esoterica Vajrakîla, che personifica questo potente strumento magico e rituale. Nella fase iniziale di assimilazione del kîla all’interno delle pratiche buddhiste, i monaci indiani utilizzavano questo strumento per circoscrivere lo spazio entro il quale si sarebbero rifugiati durante la stagione monsonica, e renderlo inattaccabile dalle forze ostili del demone Mâra, instancabilmente dedito a distogliere i monaci dai loro ritiri meditativi. I primi kîla utilizzati a tale scopo dai seguaci del buddhismo erano in legno, e venivano piantati a terra e collegati fra loro mediante una corda. In questo modo essi creavano una recinzione che delimitava uno spazio sacro a pianta centrale. Ancora oggi, ogni pratica rituale che necessiti di tale spazio, si serve di kîla per demarcarne e difenderne i confini. Una delle pratiche più note che rende indispensabile l’uso dei picchetti rituali è quella del mandala di sabbia colorata, che prevede il loro impiego sia per proteggere lo spazio sul quale verrà realizzato il disegno, sia per fissarlo alla superficie sacra una volta completato. Gli altri attributi previsti dall’iconografia di Vajrakîla sono due vajra a nove e cinque punte, oltre ad un terzo, posto sulla sommità della sua crocchia di capelli, del quale è visibile solo una delle estremità. A questi attributi si aggiungono un tridente e una fiammella che intende evocare il potere scaturito dal suo gesto di puntare l’indice minacciosamente (tarjanî-mudrâ). I tre volti di Vajrakîla immedesimano altrettante caratteristiche del suo potenziale: il volto centrale, blu, ha la facoltà di vanificare l’ignoranza; quello di destra, di colore bianco, può dissolvere le afflizioni provocate dalla rabbia; quello di sinistra, rosso, è in grado di cancellare tutte le impurità generate dal desiderio. Le sue sei braccia simboleggiano la sua abilità di liberare gli esseri e le sue quattro gambe la capacità di evitare loro le quattro rinascite infauste. Alle sue spalle è visibile un doppio mantello costituito da pelli, umana e di elefante, scoiate di fresco e tenute tese rendendo visibili anche arti, zampe e teste. L’iconografia di Vajrakîla, generalmente, prevede anche la presenza di imponenti ali spiegate, assenti in questa immagine o, probabilmente, perdute, che potevano essere agganciate al segmento metallico che si trova dietro la sua nuca e che doveva servire anche per sostenere l’alone di fiamme, anch’esso perduto, che di norma circonda i protettori della dottrina e, più in generale, le divinità irate. Vajrakîla, qui unito sessualmente alla sua compagna tantrica, che stringe a sua volta un vajra e un kapâla (vedi scheda n.6), riveste un ruolo importante soprattutto all’interno della tradizione degli insegnamenti “Antichi” (rNying-ma) ma an- che in quella del monastero di Sakya (Sa-skya) e nella scuola del “Modello di Virtù” (dGe-lugs), che fa capo ai Dalai Lama. L’immagine è realizzata in uno stile e con una lega metallica, l’ottone, caratteristiche dell’ambiente religioso e artistico sviluppatosi nei territori amministrati dall’ordine religioso di Sakya, soprattutto nel Tibet sud-occidentale e meridionale (2). La tendenza artistica ascrivibile a quest’area culturale è riconoscibile grazie ad alcuni stilemi ricorrenti: il filo di perle che orna il basamento lotiforme, realizzato attraverso piccole incisioni verticali; il particolare tipo di petali, duplici e dalla forma sottile e allungata, che costituiscono la doppia corolla di loto; e le pupille oculari rese attraverso un forellino, sovente riempito con leghe metalliche preziose. (1) Martin J. Boord, The Cult of the Deity Vajrakîla, According to the Texts of the Northern Treasures Tradition of Tibet (Byang- gter phur-ba), The Institute of Buddhist Studies, Tring 1993, p. 39. (2) Cfr. Erberto Lo Bue, Tibet dimora degli dei, La Rinascente, Milano 1991, p. 44.
For a similar Bronze figure: Carolyn Haloert Collection p.10 David Weldon-Jane Casey Carlton Rochell LLTD Von Schroeder(2001), no. 325B-C; Cornu(2001), p.649 Reynold, Heller, Gyatso (1986), pages 77-78; Pal (1983), pages 208-09; Essen and Thingo (1989), pages 170-72
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